quaderni di management 
bimestrale di cultura managerialeE.G.V.
  
  < Torna all'indice

Vox populi vox dei?

Giancarlo Oriani


 

Il numero 50 contiene un focus coordinato da Franco Favaro sulla crisi e la motivazione al lavoro.
Il focus è denso di stimoli di vario genere. Ne voglio qui di seguito evidenziare alcuni a ruota libera.
Innanzitutto si critica la scelta “forse eccessivamente rapida” di applicare in tempi di crisi “la regola più semplice: tagliare sui costi, senza però discriminare bene ciò che è vero costo da ciò che potrebbe essere investimento.
Un esempio per tutti: la formazione!”. Credo che con questa considerazione si vada al cuore della crisi italiana, che va oltre la crisi mondiale.
Un paese che non investe più. Mentre molte aziende straniere utilizzavano la riduzione dei volumi per dirottare risorse verso attività di miglioramento che consentissero di essere pronte e più competitive alla ripresa, molte nostre aziende pensavano a tagliare tutto ciò che si poteva tagliare, barcamenandosi col denaro pubblico, in attesa che il temporale passasse. Senza capire che per loro il “temporale” non sarebbe più passato più. D’altra parte c’è una forte coerenza di fondo: il governo taglia i fondi per la ricerca e la formazione, le aziende tagliano i fondi per la formazione, le famiglie sperano che i propri figli possano partecipare al Grande Fratello, anziché impegnarsi nello studio …
Un altro spunto di riflessione è la scarsa propensione ad utilizzare le risorse umane. Come rileva Favaro “si è potuto costatare che il personale aveva proposto idee, suggerimenti di modifiche organizzative o di processo, che avevano, o avrebbero, potuto generare efficacia ed efficienza ma spesso tali idee non sono state prese in considerazione”. Perché ancora questo malinteso senso della gerarchia? Perché ancora oggi il manager ritiene di dover sapere tutto ed essere pronto a fornire soluzioni invece che ascoltare i propri collaboratori e costruire con loro un’organizzazione efficace ed efficiente?
Questo tema ci collega all’interessantissimo articolo di Pero, che tenta di collegare le logiche lean alla gestione delle risorse umane. Partendo dalla “contraddizione tra la cultura artigianale e della flessibilità, centrata sull’apprendimento per esperienza diretta locale e di piccolo gruppo [propria delle nostre piccole e medie aziende], e le esigenze di razionalità di sistema e di visione d’assieme che stanno alla base della “lean” e dei suoi metodi”, l’autore identifica due possibili approcci al miglioramento tramite team di lavoro, quello più “classico”, che si ispira a Toyota, “caratterizzato da partecipazione obbligatoria, scelta dei membri e del team leader operata della Direzione, missione semplice e focalizzata” e quello battezzato “scandinavo”, “caratterizzato da adesione volontaria, selezione dei membri e del team leader per opera dello stesso gruppo, ampiezza di missione”. Particolarmente stimolante risulta l’individuazione di un approccio definibile come “lean hard” che si contrappone ad uno “lean soft”, il primo dei quali è di tipo topo down, ingegneristico, con scarso coinvolgimento; mentre il secondo è basato sulla condivisione, il coinvolgimento degli operativi, l’attenzione anche per gli aspetti umani. L’auspicio dell’autore è che “i progetti di innovazione, che oggi in Italia sono focalizzati su metodi deboli, si spostino progressivamente sui metodi forti per raggiungere più risultati e migliorare la qualità del lavoro”.  
Favaro cita Seneca: “Niente è peggio che conformarsi al rumore pubblico, credendo che le cose migliori siano quelle scelte dalla maggioranza”. Questa frase ci rimanda all’articolo di Marta Dominguez che, trattando dell’innovazione tramite il web 2.0, ci rimanda a sua volta ad un tema che ha trovato ampio spazio nelle pagine di quaderni di management (focus del numero 46, editoriale del numero 49): qual è il vero valore dell’intelligenza collettiva? Esiste? L’autrice sottolinea che il web 2.0 può avere due tipi di impatto: “Così come la massa può portare benefici – un’abbondanza di idee – la massa può anche avere impatti sulla reputazione online delle aziende”. Ma la forza della massa non deve farci perdere di vista il fatto che non si tratta di fenomeni autogestiti. Ci vuole invece una strategia formale per sfruttare il Web 2.0, che ridefinisce ma non elimina il ruolo del manager: ”La crescita delle gerarchie naturali potrebbe far sembrare che i manager abbiano poco da fare in queste realtà sociali auto organizzate. Ma la verità è che invece essi hanno molto da fare”.
   Anche l’articolo di Andreas Romberg, consulente di Staufen ed esperto di Lean Product Development, parte dalla crisi, intesa però non in senso acuto e temporaneo, ma epocale. Una crisi che impone un ripensamento completo del business: “lo sviluppo dipende decisivamente nel trovare altre forme d’attività con alta creazione di valore, anziché competere con colossi come Cina ed India”. Perciò l’innovazione e lo sviluppo prodotto devono essere posti al centro dell’attenzione, processo nel quale la Germania è all’avanguardia. Per ottenere questi risultati bisogna implementare secondo l’autore un sistema di Lean Product Development. Tale sistema ha una serie di caratterizzazioni precise: l’aumento dell’efficienza tramite l’individuazione e l’eliminazione delle attività a valore; il ricorso al “front load”, ovvero l’intensificazione delle attività interfunzionali iniziali di chiarificazione degli obiettivi di progetto (che si confronta con la tendenza contraria di essere superficiali all’inizio, rimandando la puntualizzazione dei problemi ad un periodo successivo); l’eliminazione della complessità “fatta in casa” (altro concetto manageriale oggi centrale: quanta complessità è esogena, e quindi va affrontata, e quanta è endogena, quindi va eliminata?); l’eliminazione del multitasking (quanti di noi si sentono bravi ed efficienti perché fanno molte cose per volta? Avete mai pensato all’inefficienza che si annida nel passare continuamente da un tema ad un altro?); la migliore comprensione delle esigenze del cliente, che aumenta la qualità e riduce una forma particolare di spreco, l’“over engineering”.