quaderni di management 
bimestrale di cultura managerialeE.G.V.
  
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La leadership diffusa

Giancarlo Oriani


 

L’attuale dibattito sulla complessità mette in dubbio i modelli tradizionali di leadership.
Nella prima parte del ‘900 prevaleva l’idea che il leader fosse la persona che guidava l’organizzazione verso predefiniti stati futuri attraverso la pianificazione, la direzione e il controllo. Ciò implicava che il leader avesse la capacità di capire cosa succedeva nel futuro, di gestire l’ambiguità, di agire per ridurre la complessità e l’incertezza e di guidare, quindi, gli altri verso questi stati futuri sostanzialmente prevedibili. L’idea di base era che l’organizzazione avesse obiettivi ben stabiliti (dal leader) che venissero raggiunti tramite le adeguate pratiche manageriali (messe in atto dal leader). Come evidenziano De Toni, Comello e Ioan questa visione è figlia di un “pensiero positivista, razionalista, non certo complesso” e  “deterministico, top-down, orientato o fondato sul concetto di equilibrio finale. Non vi è spazio per la sorpresa e l’emergenza”. L’azienda di questa parte del ‘900, in un ambiente relativamente stabile e semplice, aveva bisogno di Taylor cioè di un leader perfettamente ancorato alla logica direzionale del comando e controllo.
Questo modello ha anche indubbi vantaggi psicologici, perché esalta senza ambiguità la figura di chi sta al comando. Come  ci dice Bocchi, “un altro impedimento alla rinuncia del paradigma della leadership come controllo è la mancata accettazione da parte del leader del fatto di non avere tutte le risposte, e quindi di essere incompleto e mancante in una parte importante della sua stessa identità direttiva.”
Quando modifica il contesto competitivo, e quindi il modello organizzativo di riferimento, deve cambiare anche la figura del leader. Un primo passo è relativizzare le caratteristiche della leadership, che si legano ai fattori contestuali (se ad esempio si deve gestire un’attività ripetitiva oppure un gruppo innovativo) ed alle caratteristiche del personale coordinato. Il secondo è pensare un leader completamente diverso. Il leader non comanda, ma emerge dal gruppo, ed è riconosciuto per la sua autorevolezza (“alla Gore se indici una riunione e la gente si presenta allora sei un leader”). E questa idea di leadership dà ansia al leader che si identifica e gratifica nel comando e controllo.
Come evidenziano De Toni e gli altri, “a prima vista potrebbe sembrare che la leadership venga ridimensionata nel contesto delle auto-organizzazioni. Ma non è così. L’auto-organizzazione non è anarchia, non è laisseiz-faire. Non è perdita di controllo perché la direzione centralizzata non è l’unica forma di governo di un sistema. Meccanismi di controllo possono realizzarsi anche senza vere e proprie unità o funzioni di controllo, sfruttando le interconnessioni e l’organizzazione stessa del sistema e attraverso una forte condivisione dei valori”. Bocchi traccia un ritratto intrigante del nuovo leader. Egli si caratterizza per avere una visione ampia, un sogno persistente e una passione indomabile, e, e qui sta ciò che è realmente nuovo, “se vogliamo, paradossalmente, una delle caratteristiche del leader in questo contesto eccessivamente interconnesso, è la capacità di sapersi isolare. Questo non significa altezzosità e distanza dalle persone, significa piuttosto lo sviluppo della capacità di non essere schiacciato dai flussi di informazioni sempre più pervasivi e potenti. Di certo non può essere un buon leader colui che ha un approccio meramente quantitativo nella gestione delle informazioni. Occorre saper definire molto bene, di volta in volta, di situazione in situazione, che cosa sia anzitutto rilevante ai fini della presa di decisione...  Per tornare alle invarianze, penso che la selettività sia una caratteristica significativa di tutti i grandi leader”. Come evidenziano Schwandt e Szabla nel loro articolo la leadership si qualifica quindi anche per fattori cognitivi, e non solo per fattori emotivi come è prevalentemente stato in passato.
Il leader deve pensare alle relazioni interne al sistema ed ai processi.
Bocchi ci ricorda che Ralph Stacey ha recentemente fatto notare che il leader del passato era totalmente focalizzato sulle decisioni, mentre il leader che agisce nella complessità, per essere efficace, deve essere focalizzato sulle “conversazioni” che ha all’interno del sistema organizzativo. La difficoltà di implementazione di questa idea di leadership dipende dal fatto che “chi è incline a controllare ha una visione dell’Io sostanzialistica e non relazionale, un problema questo che è profondamente ancorato in tutta la tradizione occidentale, soprattutto nella modernità. Non solo: “per poter concepire la leadership come creazione di contesti auto generativi, il leader deve essere appassionato non solo del risultato finale ma anche del percorso stesso”. Entrambe le nozioni, relazioni e processo, sembrano essere di più facile applicazione in contesti culturali orientali che occidentali. Bocchi cita Jullien, grande esperto del pensiero cinese, che evidenzia come in molte civiltà orientali non esista una cultura centrata sull’Io, e piuttosto si abbia una visione dell’Io soprattutto come relazione con gli altri. In quest’ottica, può essere interessante la lettura dell’intervista ad Hirano, pubblicata in questo numero, quando si parla della maggior sensibilità del management giapponese per le persone e delle relative caratteristiche dei processi decisionali.
Come deve concretamente agire un leader in ambienti complessi? De Toni, Comello e Ioan ci rimandano a Plowman et alter, che hanno evidenziato che i leader devono far “ricorso a tre pratiche: stabilire semplici regole da seguire, lasciare interagire liberamente gli agenti, facendo attenzione al rispetto di quelle poche regole e lasciando totale libertà su altri comportamenti, e facilitare le interazioni non-lineari trasmettendo e infondendo forti connessioni emozionali tra gli agenti (condivisione di valori e principi)”.
Nei modelli auto organizzati compaiono anche metafore per così dire più radicali, come quella del jazz, dove esiste uno spartito comune su cui gli attori improvvisano senza un direttore d’orchestra, o del cervello, ancora una volta una struttura senza centro. Il concetto più recente ed innovativo è quello della leadership diffusa, collettiva. Una leadership molto lontana dall’idea dell’uomo solo al vertice, anche se questi dovesse guidare per valori e regole generali anziché tramite una vera e propria catena di comando. Come ci spiega Bocchi, la leadership, da un lato, è intesa “non come atto del grande uomo, ma come processo sociale che include leader e persone guidate”, e, dall’altro, “come fenomeno che emerge da ed è incorporato nelle interazioni fra i partecipanti.”
   Di grande interesse anche l’articolo di Martelli, che descrive la pianificazione per scenari. Il punto di partenza è che non esiste un futuro: “proprio perché il futuro è incerto noi non possiamo sapere, ma nemmeno immaginare, in anticipo come esso sarà.” Bisogna quindi accantonare la pianificazione classica ed orientarsi verso l’elaborazione di scenari. Lo scenario è “la descrizione di uno fra i diversi possibili stati futuri di un sistema”, e poiché nessuno sa come sarà il futuro, l’obiettivo diventa quello di descrivere un possibile stato alternativo di un sistema nel futuro. Ciò che è particolarmente interessante è che la cosa importante non è il risultato del processo, il livello di attendibilità delle anticipazioni contenute negli scenari, ma il processo stesso, il fatto cioè di spingere il management a ragionare sui possibili stati futuri alternativi. L’obiettivo diventa soprattutto creare conoscenza condivisa e la pianificazione diventa strumento di apprendimento, nonché strumento atto a far emergere i modelli mentali dell’azienda. Come evidenzia Martelli “gli scenari si configurano come un ulteriore approccio alternativo per estrarre, analizzare e ricostruire i modelli mentali prevalenti nell’organizzazione”. Questi approcci, che presuppongono la razionalità limitata degli attori, sono anche coerenti con la teoria di Ashby cara alla teoria della complessità. L’elaborazione di scenari vuole fornire uno strumento di lavoro che eviti il puro adagiarsi alla presunta intuizione del leader, uscendo dai limiti incontrati dagli strumenti di pianificazione e controllo classici. Se gli strumenti classici andavano bene per il leader stile “comando e controllo”, gli scenari, come strumento di integrazione e discussione, sono più adatti alla leadership diffusa.
   Lo sviluppo delle teorie manageriali sembra seguire la stessa logica dello sviluppo delle scienze fisiche durante il ‘900. Così come la relatività di Einstein supera la meccanica di Newton inglobandola (infatti quest’ultima è ancora valida in certe condizioni, in particolare può essere ancora tranquillamente utilizzata per le nostre attività quotidiane, compreso far volare un aereo) allo stesso modo la teoria della complessità supera gli approcci manageriali classici ing